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La via del sacro. I simboli dei tarocchi fra oriente ed occidente

Lonardoni Gerardo

Sono stati alcuni grandi iconologi e storici dell'arte, dal Krautheimer al Wittkower, al Baltrusaitis, a introdurci nel mondo straordinario della "migrazione dei simboli": un mondo che fino ad alcuni decenni fa sembrava riservato alle fantasie erudite, ma sovente funamboliche, di alcuni esoteristi assetati di mistero e che, d'altro canto, era stato visitato, con risultati qualche volta incredibili ma comunque di grande fascino, anche da antropologi ed etnologi da una parte, psicanalisti e psicologi del profondo dall'altra.


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Sono stati alcuni grandi iconologi e storici dell'arte, dal Krautheimer al Wittkower, al Baltrusaitis, a introdurci nel mondo straordinario della "migrazione dei simboli": un mondo che fino ad alcuni decenni fa sembrava riservato alle fantasie erudite, ma sovente funamboliche, di alcuni esoteristi assetati di mistero e che, d'altro canto, era stato visitato, con risultati qualche volta incredibili ma comunque di grande fascino, anche da antropologi ed etnologi da una parte, psicanalisti e psicologi del profondo dall'altra.

Ormai, dopo il dibattito lungo, estenuante e magari "superato" (nel senso di accantonato), mai però davvero risolto, tra diffusionisti e strutturalisti e dopo le profonde indagini relative alle analogie tra i sistemi fonetici e l'immaginario, siamo giunti alle conclusioni che Umberto Eco ha saputo, da par suo, tradurre in termini di dotta e divertente ironia: la realtà è una trama strettissima di somiglianze e di coincidenze, e poiché in fondo noi possiamo immaginare il mondo solo attivando un numero abbastanza limitato di forme-base e di numeri-base, è abbastanza naturale che "tutto si tenga" (o sembri tenersi) e che non ci sia nulla che non si possa leggere come l'aspetto esterno di una profonda, insondabile verità.

D'altro canto, gli antropologi culturali c'invitano, quando si consideri un monumento, un manufatto, un'immagine, a non fermarci mai - quando proprio non si possono evitare le secche del ricorso ai vecchi strumenti comparativistici - agli aspetti morfologici delle cose, ma a indagare sempre anche quelli connessi con i contesti e le funzioni.

Un tridente può essere un simbolo di distruzione nel mondo indoeuropeo - da Poseidone a Shiva - ma in quello cinese, che attraverso il buddhismo è entrato in profondo rapporto con i simboli della cultura aria dell'India settentrionale, esso indica al contrario la vocazione ascensionale e purificatoria espressa dall'ideogramma shan, la Montagna Sacra. E anche i più refrattari ad ammettere una forte componente esoterica alla base del movimento nazionalsocialista, se hanno un briciolo di cultura iconografica e simbologica si sorprendono talvolta a domandarsi, con qualcosa che somiglia molto a un brivido di terrore, se l'inversione che ha trasformato il sacro e benefico swastika sinistrogiro indobuddhista nel suo opposto, il distruttore sauswastika destrogiro, sia stata solo la disattenta approssimazione di un qualche occultista improvvisato.

Non possiamo astrarre né dai simboli, né dai miti. L'uomo è essenzialmente homo simbolicus e homo mithicus, altrimenti non saprebbe e non potrebbe parlare.

Mito, rito e simbolo sono connaturati con qualunque forma di civiltà, nascono con essa e con essa si sviluppano. Per molti millenni, finché gli europei occidentali non hanno infranto quell'antico equilibrio, le civiltà del pianeta si sono sviluppate l'una contigua all'altra ma senza praticamente comunicare, a "compartimenti-stagni". Dalla Cina della dinastia Han giungevano nella Roma imperiale la seta, i bronzi, le porcellane: ma i due grandi imperi s'ignoravano a vicenda, a parte qualche vaga leggenda. Eppure, le merci viaggiavano sulle lunghe vie dei continenti; e con esse le parole e i simboli. Gli Asura, dèi primordiali dell'India vedica tra cui primeggia Varuna, già nell'Atharvaveda appaiono "declassati" a demoni: e il buddhismo indiano ne tramanderà l'immagine della loro cacciata dal cielo facendoli precipitar in mare, in una scena che molto ricorda le Apocalissi cristiane. Eppure, il termine Ahura significa "signore" nella religione iranica antica ed è evidentemente imparentato con la parola che li designa; Varuna si riconosce nell'Ouranos degli elleni, e in entrambi i casi si è evidentemente dinanzi a tradizioni radicatesi prima della rivoluzione tardovedica che impose i Devas. E d'altro canto gli Asura, demonizzati in India, rimasero a lungo dèi presso i germani, i quali peraltro conoscevano anche i Vani (Wanen, o, in norreno, Vanir), divinità della fertilità e della magia. Miti e simboli s'inseguono e s'intrecciano senza posa, spiazzando diffusionisti e strutturalisti e ricordandoci che la realtà è più incredibile delle più fervide fantasie e che non c'è schema scientifico al mondo capace d'imbrigliare la complessità delle cose vissute e viventi.

Ecco perché si resta stupiti e in fondo diffidenti dinanzi a questo saggio ricco di erudizione e d'intuizioni, nel quale s'insegue un complesso mitosimbolico legato alle forme e ai colori della dea Tara, la principale divinità induista accolta nel buddhismo, la Stella del Polo Nord distinta in varie forme - le ventun "emanazioni primarie" caratterizzate da colori differenti, tra i quali primeggiano il bianco e il verde. Pericolosa consigliera, l'omofonia: ma davvero si deve per questo far finta di niente dinanzi alla somiglianza tra la Tara indiana, la tariqa degli arabi e la parola "tarocco"? Non abbandoniamoci con la beata fiducia degli esoteristi dilettanti - ai quali basta che una teoria sia diversa da quelle dei noiosi "scientisti" per convertirsi ad essa - alla magia del 4, del 22, del 56 e del 78 che questo libro suggerisce. Leggiamolo con vigile coscienza, alla caccia degli errori, delle approssimazioni, delle forzature e delle incongruenze. Ma non neghiamone la fondatezza quanto meno induttiva e indiziaria. Vi sono davvero più misteri in cielo e in terra di quanti non creda la nostra filosofia.

Introduzione - di Andrea Vitali
Il gioco dei tarocchi fu ideato verso la fine del Trecento o agli inizi del Quattrocento, con molte probabilità a Bologna, importante sede universitaria di filosofia scolastica. Questa corrente, che rappresenta la filosofia della religione cristiana medievale del IX secolo e la cui diffusione si estese fino a tutto il rinascimento, deriva la propria denominazione dallo "scolasticus", il professore universitario che basava le proprie lezioni sulla lettura e sulla discussione dei testi. Nella scolastica la ragione era posta al servizio delle verità di fede e suo scopo principale fu la conversione degli atei attraverso il ricorso alle "auctoritas" , rappresentate dalle opere dei Padri della Chiesa, dai testi sacri e da scritti della tradizione cristiana. In campo metafisico la massima autorità fu considerata Aristotele e in quello astronomico Tolomeo.

Il rapporto scolastica-trionfi (termine quest'ultimo con i quale venivano chiamati i tarocchi nel medioevo) è fondamentale per comprendere il significato di quel complesso sistema simbolico il cui fine fu, senz'ombra di dubbio, di carattere educativo morale.

In primo luogo occorre comprendere un concetto che sta alla base del pensiero cristiano di allora: quello della Scala Mistica. A questo proposito scrive il Seznec: "La teologia medievale assegna all'universo un preciso ordine, formato da una scala simbolica che sale dalla terra al cielo: dall'alto di questa scala Dio, la Prima Causa, governa il mondo, senza tuttavia intervenirvi direttamente, ma operando ex gradibus, cioè attraverso una serie ininterrotta di intermediari in modo che la sua potenza divina si trasmette fino alle creature inferiori, fino all'umile mendicante. Letta invece dal basso verso l'alto, la scala insegna che l'uomo può elevarsi gradualmente nell'ordine spirituale inerpicandosi lungo le cime del bonum, del veruni e del nobile e che la scienza e la virtù lo avvicinano a Dio".

Un Dio rappresentato nei tarocchi dalla carta del Mondo definita con l'espressione "El Dio Padre", come scriveva un anonimo monaco che commentò i tarocchi all'inizio del Cinquecento.

Senz'altro una delle figure più emblematiche dei tarocchi è quella del Folle, che tuttavia è possibile interpretare attraverso il ricorso all'auctoritas delle Sacre Scritture: nel Vangelo l'uomo che non crede è considerato folle e spesso figure di folli appaiono nelle Bibbie ad illustrare il Salmo 52 "Lo stolto dice nel suo cuore: non esiste Dio!". Il rapporto fede-ragione è espresso chiaramente nei trattati di iconologia rinascimentali. Scrive il Ripa nella sua "Iconologia" che "Non è altro l'esser pazzo, secondo il nostro modo di parlare, che far le cose senza decoro, e fuor dal comune uso de gli huomini per privationi di discorso senza ragione verisimile o stimolo di Religione". Sul riso del Folle, quale si ritrova nella carta del cosiddetto Tarocco di Carlo VI e in quella di Ercole I d'Este, egli afferma che esso è "facilmente indicio di pazzia, secondo il detto di Salomone; però si vede che gli uomini reputati savii poco ridono e Christo N.S. che fu la vera saviezza, e sapienza, non si legge, che ridesse giammai". Un'incisione di anonimo del 1500 mostra un folle che ride davanti ad un angelo il quale si chiude gli occhi con le mani per non vedere tanta scelleratezza.

Risulta evidente che se finalità della scolastica era la conversione degli atei, la figura del Folle nella Scala Mistica dei tarocchi si configura come il punto di partenza, l'essere che non doveva solo essere convertito, ma che tramite l'obbedienza alle diverse gerarchie terrene e l'esercizio delle Virtù poteva avvicinarsi alla Divinità giungendo, nel migliore dei casi, a sublimarsi in Lui come San Francesco, chiamato il Folle di Dio.

Che i tarocchi siano stati concepiti come un insieme di simboli di insegnamento cristiano assemblati in un gioco con cui, secondo i dettami dell'arte della memoria era possibile rimandare alla mente i concetti della teologia del tempo, è facilmente dimostrabile se si pensa ai "Triumphi" del Petrarca di cui al tempo esisteva anche un gioco educativo. Il poeta trecentesco nella sua opera descrive infatti le principali forze che governano gli uomini attribuendo loro un valore gerarchico. Per primo viene l'Amore (Istinto), che corrisponde ad una fase giovanile, vinto dalla Pudicizia (Castità, Ragione), fase successiva di matura pacatezza, a cui segue la Morte, che sta a significare la transitorietà delle cose terrene. Essa viene vinta tuttavia dalla Fama, vittoriosa sulla morte nella memoria dei posteri, ma su di essa trionfa il Tempo il quale è sovrastato infine dal Trionfo dell'Eternità, che sottrae l'uomo dal flusso del divenire e lo pone nel regno dell'Eterno. Nelle carte dei tarocchi i Trionfi passarono da 6 a 22 mediante l'introduzione delle figure del potere temporale (L'Imperatore e l'Imperatrice), di quello spirituale (Il Papa e la Papessa, da intendersi questa ultima come Fede), delle virtù, e di una serie di altre figure legate al concetto del "memento mori", fra cui un posto di grande rilevanza spetta alla carta dell'Appeso, in origine chiamata "Il Traditore" in considerazione dell'identità con la pena comminata per questa colpa. Un richiamo che insegnava a non tradire il proprio Creatore connotato senza dubbio da un forte monito per la sua vicinanza con la carta della Morte e del successivo Diavolo.

Se 22 è il numero delle carte dei trionfi, non fu per caso, né tantomeno corrispose ad esigenze di carattere esclusivamente ludico. Scrive infatti Origene, padre della Chiesa e somma autorità: "Nella disposizione numerale i numeri singoli contengono certa quale forza e potere sulle cose e di tale potere e forza si è valso il Creatore dell'universo, talora per la costituzione dell'universo stesso, talora a significare la natura delle cose singole così come esse ci appaiono. Ne segue allora che in base alle scritture, occorre osservare e derivare quegli aspetti che singolarmente appartengono ai numeri stessi. E in realtà occorre non ignorare che i libri stessi dell'Antico Testamento, come gli Ebrei li hanno trasmessi, sono Ventidue e ad essi è uguale il numero degli elementi ebraici e questo non senza motivo. Come infatti Ventidue lettere sembrano essere l'introduzione alla sapienza e alla dottrina impressa con queste figure negli uomini, così pure i Ventidue libri della Scrittura costituiscono il fondamento e l'introduzione alla sapienza di Dio e alla conoscenza del mondo" (Select. in Ps I - PG 12,1084).

Per la creazione di un gioco di carte a scopo ludico e nel contempo educativo basato sui dettami della scolastica e strutturato sui valori della Scala Mistica occorreva rivolgersi ai significati della numerologia cristiana come infatti troviamo nei tarocchi. Ma il pensiero delle auctoritas lo si ritrova in queste carte anche in rapporto alla visione dell'universo. Come nel cosmo aristotelico infatti, la sfera terrestre è circondata dal cerchio dei "fuochi celesti", raffigurati da fulmini che colpiscono una Torre mentre le sfere planetarie sono sintetizzate dai tre astri principali: Venere, la Stella per eccellenza, la Luna e il Sole.

In definitiva si può affermare che le regole del gioco furono elaborate sul numero 78 derivante dall'insieme dei Trionfi (22) e delle carte numerali (dall'1 al 10 di ciascun seme) e di quelle di corte (re, regina, cavallo, fante), e non definite a priori scegliendo successivamente il numero delle carte necessarie da adattare alle regole.

A puro titolo informativo dobbiamo far osservare che inizialmente i tarocchi non furono utilizzati, come molti pensano, a scopo cartomantico. Sebbene Merlin Cocai (pseudonimo di Teofilo Folengo) nella sua opera, il Chaos del Tri per uno del 1527, abbia descritto in forma letteraria una sorta di lettura divinatoria con i Tarocchi simile a quella usata attualmente, l'uso profetico con le carte non era abituale nel Rinascimento in quanto non solo il documento riportato appare unico, ma non se ne trova alcuna traccia nelle numerose opere del tempo che trattano l'argomento.

Per quanto ci risulta, sappiamo che alla Bologna dei primi del Settecento appartiene il primo documento conosciuto riportante l'elenco delle carte con i relativi significati divinatori. Il manoscritto, che si trova nella Biblioteca Universitaria di Bologna, fu scoperto all'interno di una serie di lettere e corrispondenze riferibili ad ambiente massonico.

L'origine bolognese dei Trionfi trova inoltre conferma dalla presenza di Francesco Antelminelli Castracani Fibbia in quella città già verso la seconda metà del XIV secolo. La figura di questo Principe, a cui in un quadro seicentesco che lo ritrae viene attribuita l'invenzione dei tarocchini, è stata oggetto di studi specifici da parte dello scrivente che ne ha attestato, attraverso documenti cinquecenteschi, la presenza a Bologna fra il Tre e il Quattrocento.

Egli visse in quella città nel preciso momento in cui iniziarono i lavori per la costruzione di San Petronio al cui interno, oltre alla presenza di 22 cappelle, ritroviamo quelle immagini dell'Appeso e dell'Angelo, che confluirono nelle carte dei tarocchi unitamente ad altre testimonianze.

Dopo appena cento anni dalla loro creazione il concetto della Scala Mistica sul quale erano stati strutturati era divenuto incomprensibile alle autorità religiose, tanto che di fronte alla grande diffusione ludica dei tarocchi che assunsero sempre più le caratteristiche di gioco d'azzardo, si ebbero a più riprese condanne ecclesiastiche. Addirittura, la religiosità popolare attribuì la loro invenzione al Diavolo, che avrebbe inserito nelle carte la figura del Papa e della Papessa per farsi beffe di Dio, rendendo l'uomo peccatore per trascinarlo con sé all'Inferno.

Solo sul finire del Settecento, in piena epoca illuministica, venne riscoperto il contenuto filosofico di queste carte i cui nuovi interpreti, appartenenti a correnti massoniche, diedero origine a una diversa utilizzazione dei tarocchi legandoli ad una mistica di stampo esoterico. Antoine Court de Gébelin un "archeologo" a quell'epoca molto famoso, affiliato alla Massoneria francese, scrisse in un'opera che lo rese celebre: "Se ci apprestassimo ad annunciare che, ai giorni nostri, sussiste un'Opera che contiene la più pura dottrina degli Egizi sfuggita alle fiamme delle loro biblioteche chi non sarebbe impaziente di conoscere un Libro tanto prezioso e straordinario.

Questo libro esiste e le sue pagine sono le figure dei Tarocchi".

Per giustificare le sue affermazioni inserite nell'VIII volume del suo "Le Monde Primitif" il de Gébelin spiegò che la parola Tarocco sarebbe derivata dall'egizio Ta-Rosch = Scienza di Mercurio, l'Ermete dei Greci, il Dio Thoth degli Egizi, indicandone le numerose proprietà magiche.

Questa affermazione, non suffragata purtroppo da una corretta decifrazione in quanto la parola Ta-Rosch è assente nell'antico vocabolario egizio, ci introduce ad uno dei più grandi misteri insito nel mondo del tarocco, che è proprio il significato etimologico di questo termine.

Mentre nell'uso ludico e secondo una tradizione mantenutasi fino ai giorni nostri, la parola Trionfi è sempre stata utilizzata dai giocatori in riferimento alle 22 figure emblematiche, nel Cinquecento apparve il termine Tarocchi che sostituì quello di Trionfi per definire l'intero mazzo di 78 carte. Diversi studiosi contemporanei ritengono che esso derivi dal termine dialettale "tarocar", ossia dire o fare cose sciocche o insensate, in riferimento al gioco d'azzardo, come suggerisce anche la parola Minchiate, cioè i tarocchi toscani che fecero la loro prima apparizione già verso la metà del sec. XV. Infatti il termine fiorentino Minchiata, che significa cosa di poco conto (bazzecola, quisquiglia, etc), deriva dal latino Mentala, il pene, a testimonianza di un particolare uso della lingua italiana e di numerosi dialetti per cui le "stupidaggini", intese come cose senza valore, e fra queste il gioco delle carte, vengono tutt'ora rese con termini derivati dai nomi dell'organo sessuale maschile.

Altri ritengono che Tarocco derivi dal verbo "taroccare" che significa, nel gioco, "rispondere con una carta più potente", verbo derivante dall'italiano antico altarcare (dal latino altercari, in italiano moderno altercare) con significato, in senso giuridico, di litigare con un solo interlocutore (dal latino alter=altro, avversario). Occorre notare che nell'Italiano moderno il verbo "taroccare" è spesso usato in senso spregiativo significando letteralmente secondo il Devoto-Oli: "Proferire una serie di parole ingiuriose o volgari, sia da soli per sfogo dell'ira che nel corso di un litigio. «Lascialo dire.

Non sapete com'è fatto? Ha voglia di taroccare» (Goldoni)".

Altri ancora pensano che Tarocco derivi da "taroccato" termine a sua volta derivante dal latino taràre=forare affine a tèrere=battere. Chiamasi infatti taroccato una superficie dorata a foglia che viene picchiettata o solcata da uno stilo, o punzone, per imprimere un disegno nell'oro, così come sono stati realizzati i fondi dei primi tarocchi miniati. Sta di fatto tuttavia che, quando apparve per la prima volta il termine Tarocchi, le carte miniate non venivano più realizzate da quasi mezzo secolo.

Ma gli uomini del Cinquecento quali significati attribuirono alla parola Tarocco? I più svariati, a testimonianza che il vero etimo era a loro del tutto sconosciuto. Non solo essi non ne conoscevano il significato, ma neppure sapevano quando, dove e da chi quelle carte fossero state inventate. Solo alcuni di essi inoltre, appartenenti a sfere sociali di una certa rilevanza, cercarono di comprenderne il valore educativo.

Il ferrarese Flavio Alberto Lollio nella sua "Invettiva contro il giuoco del tarocco" del 1550 ritiene la parola tarocco un nome fantastico e bizzarro, senza etimologia:


"...quel nome bizzarro / Di tarocco, senza ethimologia, / Fa palese a ciascun, che i ghiribizzi / Gli havesser guasto, e storpiato il cervello. / Questa squadra di ladri, e di ribaldi, / Questi, che il vulgo suoi chiamare Trionfi, / M'han fatto tante volte si gran torti, / Si manifeste ingiurie, ch'io non posso / Se non mai sempre di lor lamentarmi/:..."

Nel commento di Messer Pietropaolo da San Quirico al "Capitolo del gioco della primiera" di Francesco Berni del 1526 troviamo un' ulteriore interpretazione di carattere negativo:
"Viso proprio di Tarocco colui a chi piace questo gioco; che altro non vuoi dir Tarocco che ignocco, sciocco, balocco, degno di star fra fornari e calzolari e plebei a giocarsi in tutto un dì un carlino in quarto a Tarocchi, o a Trionfi, o a Sminchiate che si sia: che ad ogni modo tutto importa minchioneria e dapocaggine, pascendo l' occhio col sole e con la luna e col dodici, come fanno i putti".

Lo storico contemporaneo Ross Sinclair Caldwell riferisce che uno stesso significato spregiativo si trova in Teofilo Folengo (e. 1520) che usa il termine "tarocus" a significare "stupido" o "imbecille".

Così invece ne interpreta l'etimo il giurista Andrea Alciati, il celebre autore degli "Emblemata" in un'altra sua opera, il "Parergon Juris" del 1538:

"Mi hanno chiesto moltissime volte, se gli antichi avevano il gioco delle carte, col quale oggi gli oziosi sono soliti preferibilmente trascorrere il loro tempo. Ho risposto di non averlo letto da nessuna parte: per la verità avevano altri giochi che Giulio Polluce passa in rassegna nel 9° libro. Ma di questo, per quanto ne so, nessuno ha mai parlato; sebbene quello che volgarmente viene detto gioco dei tarocchi abbia un ètimo greco. Possono infatti chiamarsi hetarochoi quei 'compagni' che si riuniscono a giocare per il cibo e sono soliti giocare le carte...".

In un manoscritto anonimo intitolato "Discorso perché fosse trovato il giuoco" si trovano interessanti osservazioni sui tarocchi, fra cui l'origine etimologica, così come ritenuta dall'autore: "Tarocco in lingua greca altro non vuoi dire che salso e pretioso condimento, nome veramente conveniente e proprio, essendo questo di diverse cose fatto in concime (?) saporito di acutezza e giovevoli contemplazioni ripieno e perciò pretioso e solo fra tutti gli altri degno di essere tenuto in pregio essendo tutti gli altri a paragone di questo, sciocchi....". A tal proposito dobbiamo osservare che esiste in greco il verbo "tarichèuo" che significa mettere a seccare sotto sale, in salamoia, e per estensione anche mummificare. Inoltre i sostantivi Tàrichos e Tàrichon significano carne o pesce conservata sotto sale e per estensione mummia.

L'interpretazione data nel prosieguo dell'opera a queste carte appare chiaramente di stampo filosofico, se non addirittura teologico. I Trionfi vengono considerati come simboli destinati a mettere in guardia dai pericoli e nel contempo ad insegnare come evitarli. Disposti in ordine crescente e divisi in due gruppi, il primo conterrebbe 15 carte (dal Matto al Diavolo) collegate alle quattro inclinazioni umane, mentre le altre sette, dalla Torre al Mondo, avrebbero la funzione di portare ad un migliore conoscenza di se stessi, del mondo e di Dio.

Un altro giureconsulto del tempo scorge nei tarocchi delle importanti qualità, come il canonico Pierre Gregoire il quale scrive nel "Sintagma luris Universi" (1582) che "... furono inventati giochi di carte, nei quali mentre si gioca appaiono le tracce di una certa erudiziene, come nei tarocchi, e in quelli insieme ai quali sono state composte massime sacre e di filosofi, presso il tipografo Vuechello di Parigi. Per il resto, di quelli e di giochi simili abusa l'umana cupidigia, finché c'è di mezzo il denaro e il desiderio di possederne"

Un ruolo di privilegio, per il ricorso alla ragione come verità di fede, va assegnata all'interpretazione di Francesco Piscina, "scuolar di leggi" che nella sua opera " Discorso sopra l'ordine delle figure de tarocchi" del 1565 a proposito della funzione educativa dei tarocchi così si esprime: "...considerando la mente dell'Inventore diciamo egli haver voluto in queste soe figure di mostrare, molti Morali ammaestramenti, e sotto qualche difficoltà morder i cativi e pestiferi costumi, & insegnare quante attieni hoggidi fuori del diritto & onesto governare, & al contrario del dovere, e giusto maneggiare siano, per il che evidentemente non solo ha dimostrato essere buono e fedel seguace della Cattolica e Cristiana fede, ma eziamdio molto esperto & eccellente de i costumi della vita Civile, Poscia che di ventidoe figure che ha posto & eletto non vi sia pur una che ben ponderata non apporti seco grandissima e profondissima consideratione, & che non sia degna d'essere benissimo osservata, la ragione....".

Anche nei riguardi del significato delle carte dei quattro semi gli uomini del Rinascimento offrirono svariate interpretazioni, tutte dettate da convinzioni personali.

Nell'opera Bizzarrie Accademiche di Giovan Francesco Loredano, troviamo discorsi e versi che furono letti e recitati presso l'Accademia degli Incogniti, fondata dal Loredano stesso. Fra questi troviamo il discorso Che moralità si può cavare dal giuoco delle carte dove l'autore ricalca quanto già descritto su questo vizio e sulla sua perniciosità.

Al termine egli compie una digressione sui semi delle carte che così descrive: " Si può dire, che nel giuoco delle carte s'intendano le quattro Stagioni dell'anno. Le Spade indicano la primavera, nella quale tutti i Principi muovono l'armi.

I Denari figurano l'Estate, nella quale si raccolgono i grani, e l'entrate. Le Coppe ripiene di vino significano l'Autunno. I Bastoni sono simbolo del Verno, perché gli alberi del Verno sono nudi a guisa di Bastoni. Tanto più, che nel verno sono necessari i Bastoni per iscaldarsi".

Non dello stesso parere fu il monaco che scrisse il celebre Sermo perutilis de ludo (Sermone utilissimo sul gioco), in cui egli attribuisce l'invenzione della carte al Diavolo: "Se il giocatore
pensasse al significato delle carte, se ne starebbe alla larga. Infatti nelle carte c'è una quadruplice differenza.

Lì infatti ci sono i Denari che corrono via dalle mani dei giocatori. E questo significa l'instabilità del denaro nel giocatore, perché devi pensare che quando entri nel gioco i tuoi Denari andranno alla malora perché perderai. Ci sono anche le Coppe a mostrare a qual punto di povertà arriverà il giocatore, perché privo di bicchiere si servirà per bere di una coppa. Ci sono anche i Bastoni. Il legno è secco per suggerire l'aridità della grazia divina nel giocatore. Ci sono poi da ultimo le Spade a significare la brevità della vita del giocatore poiché per lo più uccidono ecc."

Ma nel Giuoco del Re tratto dal Giuoco delle Carte descritto da Innocenze Ringhieri nel suo trattato intitolato Cento Giuochi liberali e d'Ingegno, troviamo una interpretazione di carattere quasi filosofico: i semi sono abbinati alle quattro virtù morali e cioè le Coppe alla Temperanza, le Colonne (i Bastoni) alla Fortezza, le Spade alla Giustizia e gli Specchi (i Denari) alla Prudenza.

Da ultimo nel citato manoscritto "Perché fosse trovato il giuoco" troviamo che i quattro semi indicherebbero i quattro fondamentali istinti o inclinazioni dell'uomo: i Denari la ricchezza; i Bastoni il potere dei magistrati e dei pubblici ufficiali; le Coppe il piacere e le Spade la guerra.

Da questa panoramica risulta evidente che sia il termine tarocchi che il loro vero significato era agli uomini di quel tempo completamente sconosciuto.

Da parte dell'autore di questo libro viene avanzata una nuova interpretazione sull'origine del termine che trova la completa accettazione dello scrivente e questo per diversi motivi: il primo dei quali è la consapevolezza dell'influenza della mistica orientale sulla teologia cristiana, aspetto che non è mai stato storicamente approfondito come avrebbe dovuto.

Sorprende infatti la similitudine numerologica, in relazione ai Trionfi, che caratterizza la Tara Verde, dea della Conoscenza Suprema nel Buddismo Tibetano. Il suo culto, nato in India e fiorito in Tibet a partire dall'anno Mille, la raffigura con 21 emanazioni primarie, e sua prerogativa è quella di condurre l'uomo al supremo stadio di beatitudine. Ma le "coincidenze" tra il numero dei trionfi e le religioni indiane non si fermano qui. Nella dottrina sivaita, una religione induista eterodossa che ebbe intensa fioritura nella regione dell'Indostan-Kashmir, intorno all'VIII secolo furono scritti gli Sivasutra, una serie di aforismi attribuiti al Dio Siva di cui 22 sono i maggiori, 10 gli intermedi e 46 i minori, per un totale di 78; esattamente come il numero dei tarocchi. Da ricordare infine che i semi di Bastoni, adottati dagli arabi per le loro carte, derivano dal mondo indiano dove rappresentano ancora mazze da polo.

Avvicinandoci fisicamente all'Europa con questa digressione, non possiamo fare a meno di constatare che nella dottrina sufica la via della Conoscenza Mistica è chiamata con il termine ta-riqa (si pronuncia tariccà). Si tratta di una dottrina basata su 21 gradini di conoscenza, più la Follia.

Il numero 78, formato dal 22 e dal 56, è inoltre presente in alcune strutture simboliche cristiane, come ad esempio nel Rosone del Duomo di Orvieto, composto da un cerchio inserito all'interno di un quadrato. I raggi del Rosone sono infatti costituiti da 22 colonne, mentre i lati del quadrato sono abbelliti da 52 teste scolpite. Agli angoli del quadrato sono state invece dipinte le figure dei 4 evangelisti. Il totale delle figure presenti è perciò 78, numero determinato dal 22 e dal 52 più 4.

Quest'opera si pone pertanto fra i testi di maggior interesse riguardanti il percorso del Sacro, grazie ad una più profonda comprensione dei contenuti etici presenti nei tarocchi in relazione alle influenze che la mistica orientale operò sul pensiero della scolastica.


Informazioni
  • Codice tama2
  • Anno 2008
  • Pagine 160
  • Isbn 9788875720698

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